Nei giorni scorsi si è svolto il 20esimo convegno sul tema dell’internazionalizzazione organizzato da Confindustria Lecco, il primo da quando Confindustria Lecco e Sondrio si sono fuse.
Dopo il momento di apertura durante il quale sono stati consegnati i premi per l’internazionalizzazione ad alcune aziende che più di altre si sono contraddistinte per ottime performance sui mercati esteri (FIOCCHI MINUZIONI SPA, FIVEP SPA, FOMAS, ELCO MANDELLI SPA, OSVALDO CARIBONI LECCO SPA, SIDERVAL SPA E SPECIAL COFEEE SRL), i relatori, Onorevole Antonio Tajani, Vice Presidente del Parlamento Europeo, Onorevole Massimiliano Salini, Membro delle Commissioni “Industria, ricerca, energia” e “Trasporti e turismo” del Parlamento Europeo e la Dott.ssa Alessandra Lanza, economista e partner di Prometeia hanno affrontato il tema dell’internazionalizzazione alla luce dei recenti fatti che hanno colpito il cuore dell’Europa e che tuttora stanno caratterizzando il bacino del Mediterraneo.
Ne esce un quadro molto complesso e delicato, dove spesso internazionalizzazione e geopolitica non rappresentano sempre un binomio perfetto. La verità è che il problema del futuro per le aziende che intendono iniziare o continuare ad esportare non è solo il mercato di destinazione in quanto tale, ma i nuovi e sempre più complessi scenari, gli accordi commerciali e le alleanze politiche.
Partiamo da alcuni dati di fatto: l’Italia esporta 400 miliardi, le province di Sondrio e Lecco insieme esportano 4.1 miliardi, di questi il 25% è destinato alla vicinissima Germania. In termini relativi, la provincia di Lecco è la prima in Italia per valore aggiunto manifatturiero. Se l’Unione Europea resta il mercato di riferimento principale per gli stati membri, al secondo posto gli Stati Uniti si riaffermano in maniera sempre più forte, dopo un po’ di anni di latitanza.
L’Europa esporta il 45% tra gli Stati membri creando una situazione che in termine tecnico viene definita “effetto cuscino”.
Mentre gli States crescono, perdono appeal e destano notevoli preoccupazioni mercati come Russia, Brasile, Cina e Turchia. Il rallentamento quindi che sta caratterizzando i Paesi Emergenti sta destando molta preoccupazione. Il commercio globale sembra aver subito una battuta d’arresto; se prima il commercio globale cresceva più del PIL globale ora non è più così.
La Cina crescerà nel 2015/2016 del 6,15%, un tasso più contenuto rispetto a quello degli anni passati. Tuttavia tale tasso potrebbe ulteriormente peggiorare. Dubbio infatti è il modo in cui è costruita la curva della crescita cinese.
La crisi cinese pesa sulle materie prime, sui beni di consumo, sui beni intermedi e di investimento. La produzione industriale è crollata ed è da ricostruire. Il mercato cinese tuttavia è da presidiare per una buona crescita della classe media. E’ ormai confermato che il modo di consumare del cinese è cambiato, meno attenzione al grande marchio, più interesse per i prodotti white label.
Il problema vero del Brasile è il suo debito, fortunatamente però il Brasile è un mercato che negli anni ha saputo innovare.
La Russia è un mercato concentrato nelle grandi città che hanno conosciuto un reale aumento del potere d’acquisto, ma la Russia è un mercato che quasi sicuramente farà fatica a recuperare poiché nel corso degli anni non ha saputo innovare. E’ dichiarato che se la Russia non è in grado di riprendersi ora in funzione degli ingenti investimenti nella spesa militare, non ripartirà più.
L’India è un buon mercato, cresce a tassi sostenuti, ma gli italiani sono poco presenti.
Un commento a parte, come già anticipato in precedenza, meritano gli Stati Uniti che, nonostante le aspettative di molti, sono un Paese che esporta solo il 13% di quello che produce.
Gli Stati Uniti rappresentano oggi il Paese con le maggiori opportunità, caratterizzato da tassi di crescita che sono tornati ai livelli pre-crisi, grazie a scelte di politiche economiche molto incisive ed effettuate in tempi brevi.
Gli Stati Uniti hanno creduto nella loro crescita e ci hanno realmente investito. Le scelte energetiche adottate sono state una vera rivoluzione ed hanno reso il Paese quasi completamente autonomo, potenziando enormemente la manifattura interna. Il RESHORING ha definitivamente contribuito a questo percorso di crescita.
Gli Stati Uniti si possono definire da soli un continente: hanno una struttura demografica che rimane giovane, hanno una popolazione con un grado di education elevato, hanno una componente di immigrazione e attrazione di talenti dal mondo molto forte.
Gli Italiani sono molto presenti a NY e nel New Jersey, ma sono assenti da molti stati caratterizzati da un PIL e da un reddito procapite molto elevati. Ad esempio gli Italiani non sono presenti a Washington D.C., nel Connecticut, nel Massachusetts.
Alcuni settori particolarmente performanti per l’economia americana e italiana riguardano l’Oil&Gas (Midwest), l’Automotive e la meccanica (zona laghi), l’IT in California, nella costa Ovest e in alcune aree della costa Est e in quelle centrali.
Gli Stati Uniti si confermano un mercato importante per l’Italia: il 27% del Made in Italy è esportato negli USA e il 26% della meccanica.
Un plauso va alle aziende italiane che sono state in grado di agganciare la ripresa di questo importante mercato. Unico vero settore italiano penalizzato e poco presente è quello della HIGHTECH.
L’Italia si trova al 4° posto per l’agroalimentare, al 1° posto per il vino (l’Italia ha superato i cugini d’Oltralpe), al 6° posto per la moda, al 6° posto per la meccanica, al 5° posto per i mobili e negli ultimi posti per la gioielleria.
Siamo ancora poco presenti e abbiamo spazio per crescere. C’è da dire che negli ultimi 10 anni la curiosità da parte degli Americani delle aree non presidiate dagli Italiani nei nostri confronti è cresciuta molto.
Cosa ci riconoscono gli Americani?
FORZA
*QUALITÀ, STILE E DESIGN DI PRODOTTO
*CAPACITÀ DI INNOVAZIONE
*UNICITÀ DEL MADE IN ITALY
DEBOLEZZE
*MANCANZA DELLA DEBOLEZZA DEL LORO MERCATO
*LA DIMENSIONE DELLE IMPRESE CHE SONO TROPPO PICCOLE
*MANCANZA DEL BRAND
*MANCANZA DI ASSISTENZA PRE E POST VENDITA
Un ruolo chiave è rappresentato in questo momento dal TTPI, acronimo del nome in inglese, “Transatlantic Trade and Investment Partnership, che è un accordo commerciale di libero scambio in corso di negoziazione tra l’Unione europea e gli Stati Uniti d’America. Tra favorevoli e contrari, l’importanza di questo accordo sembrerebbe enorme. Ad esempio, il settore agroalimentare italiano ne risentirebbe positivamente arginando fortemente il problema del falso, dell’Italian Sounding, che costituisce un vero e proprio mercato parallelo che fattura più del business vero.
Anche gli Stati Uniti sono molto dibattuti sul tema e si sta cercando di capire se il trattato verrà sottoscritto entro il mandato di Obama.
Dal 2012 esiste il “Made in”, una sorta di identificazione della provenienza del prodotto a tutela del consumatore europeo. Purtroppo le categorie coinvolte da questa identificazione sono sempre meno, quindi la tutela del consumatore è davvero relativa. In pratica, il Made in prevede l’esistenza di un’autorità europea che interviene in caso di falso o contraffazioni laddove non si muova il singolo stato membro interessato.
A queste minori tutele, si aggiunge un altro grande rischio, ossia la possibilità che alla Cina venga riconosciuto lo status di economia di mercato, quando tutti convengono che non lo sia. L’Italia ne risentirebbe molto. Oggi la Cina ha una capacità produttiva doppia rispetto a quella dell’Italia per quanto riguarda i prodotti siderurgici, solo per fare un esempio.
La Germania, invece, è uno di quegli Stati contrari al MADE IN. La Germania nel 2016 in realtà sarà il Paese più monitorato d’Europa. Due infatti sono i problemi seri che incidono sulle performance tedesche, la Volkswagen e la Deutsche Bank. I numeri dimostrano come la fiducia dei consumatori e degli investitori sia fortemente influenzata da queste problematiche. Anche la Francia rappresenta un problema poiché a differenza dell’Italia o della Germania ha un valore aggiunto manifatturiero molto basso e quindi è uno stato che soffre molto la sfiducia dei consumatori e degli investitori. Il Regno Unito, dopo anni di economia basata sulla finanza, come hanno tentato di fare anche Grecia e Spagna, ha riattivato una politica basata sulla manifattura, una politica industriale, magari diversa dalla nostra, ma per certi aspetti efficace.
Da tutto questo emerge un messaggio piuttosto chiaro: è necessario un percorso di moderna reindustrializzazione che passi dall’accesso al credito, dal venture capital, dall’internazionalizzazione, dal fare rete e da un’economia basata sulla manifattura.
L’Europa intende essere vicina agli Stati Uniti onde evitare di restare esclusa da significativi percorsi di crescita. E’ determinante il dialogo tra USA e Russia per garantire stabilità nel Mediterraneo ed evitare che i Russi si avvicinino alla Cina. E’ ormai dichiarato che nessuno considera la Cina un’economia di mercato, quanto meno non allo stato attuale.
Diverse sono le implicazioni che la geopolitica comporta per le aziende. Esistono situazioni differenti per aziende che hanno sedi produttive ed aziende che si limitano ad esportare.
I rischi sovrani, politici e di confisca tornano ad essere reali, le aziende sono quasi obbligate a dover lavorare con le assicurazioni sul credito.
Se le aziende che esportano sono già presenti in alcuni Paesi chiusi, quali ad esempio l’Ucraina, può valer la pena restare (se produco tagliaerba e sono presente in Ucraina che è il granaio d’Europa è meglio che resti).
I problemi di rischio sul cambio e sul tasso che nessuno considera o le perdite sui cambi possono essere significative. Le strategie di cambio e di assicurazioni devono essere mirate.
Oltre a dover prestare attenzione alle dinamiche sopra descritte o ai problemi che si riaffacciano prepotentemente e con i quali le imprese non avevano più a che fare da tempo, resta vivo il problema della ripartizione del rischio e quindi la necessità di diversificare il proprio export e nel caso le modalità di presenza sui mercati esteri.
Le aziende italiane devono entrare nell’ottica di potersi appoggiare alle istituzioni di Bruxelles per chiedere soldi a fronte di progetti. La Regione Lombardia, ad esempio, si contraddistingue per chiedere molto a Bruxelles e sfruttare tutto quello che può avere a disposizione.