Storia di Jean Giono, raccontata da Leone Belotti, MULTI Comunicazione

12. IL CORAGGIO DI INVESTIRE

La storia inizia nel 1913, quando il diciottenne Jean Giono s’inoltra per un’escursione solitaria nell’altopiano tra il Monte Ventoux e le Alpi. Dopo tre giorni di marcia si ritrova senza acqua in un paesaggio di “una desolazione senza pari”: un altopiano desertico battuto da un vento brutale, i pochi villaggi abbandonati da anni, scheletri di alberi rinsecchiti, unica forma di vita la lavanda selvatica. Intravede in lontananza una figura, è un pastore con le sue trenta pecore che gli offre la sua borraccia e lo ospita nella sua umile dimora.

“La casa era in ordine, i piatti lavati, il pavimento di legno spazzato, la minestra bolliva sul fuoco”. Il giovane scrittore nota che il pastore, di età compresa tra i 50 e i 60 anni, è rasato, i suoi bottoni solidamente cuciti, i vestiti rammendati con precisione e “il suo cane, silenzioso come lui, è affettuoso senza bassezza”.

Dopo aver diviso la minestra, il pastore prende un sacco di ghiande, le rovescia sul tavolo, seleziona con grande cura le migliori e le divide in mucchietti da dieci. L’indomani, incuriosito, Jean Giono segue il pastore e lo osserva mentre percorre quelle lande aride fermandosi a distanze regolari per bucare il terreno, depositare una ghianda, e poi ricoprirla con delicatezza.

“Si chiamava Elzéard Bouffier, si era ritirato a vivere in solitudine dopo aver perso l’unico figlio e la moglie. Da tre anni piantava querce. Ne aveva piantate centomila, ne erano spuntate ventimila. Contava di perderne la metà. Restavano diecimila querce che in trent’anni sarebbero cresciute magnifiche in quel posto dove prima non c’era nulla”.

Trenta anni dopo, Jean Giono è diventato uno scrittore di mezza età. Torna in quei luoghi, e non li riconosce. L’intero altopiano un tempo desertico è ricoperto di boschi di querce, faggi, aceri e betulle. Gli alberi hanno riportato l’acqua, e l’acqua correva in ruscelli che in tempi molto antichi erano stati vivi. Con i ruscelli erano riapparsi i salici, i giunchi, i prati, i fiori e la fauna. Villaggi abbandonati da decenni si stavano ripopolando e le case erano circondate “da campicelli di orzo e segale e orti in cui crescevano insieme cavoli e rose, sedani e anemoni, porri e bocche di leone. Era un posto dove si aveva voglia di vivere”.

Elzéard Bouffier era ancora vivo, ultraottantenne. Aveva continuato il suo lavoro ignorando la prima come la seconda guerra mondiale, diversificando gli alberi, e coprendo tutto il territorio nel raggio di venti chilometri da casa sua.

 “Tutta la zona risplende di salute e felicità. Una popolazione venuta dalle pianure si è stabilita qui portando gioventù, movimento, spirito d’avventura. S’incontrano nei villaggi uomini e donne ben nutriti, ragazzi e ragazze che sanno ridere. Più di diecimila persone devono la loro felicità al lavoro di Elzéard Bouffier”.

“Se metto in conto quanto c’è voluto di costanza nella grandezza d’animo e di accanimento nella generosità per ottenere questo risultato, provo un enorme rispetto per quel vecchio contadino senza cultura che ha saputo portare a buon fine un’opera degna di Dio. Quando penso che un uomo solo, ridotto alle proprie semplici risorse fisiche e morali, è bastato a far uscire un’intera regione dal deserto, trovo che, malgrado tutto, la condizione umana è ammirevole”.

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