Storia di mio padre Davide
raccontata da Annalisa
MULTI export manager

09. IL CORAGGIO DELLA SQUADRA

Una vecchia fotografia, un gruppo di uomini in camice bianco
«Eravamo cinque disegnatori più il capufficio, che era anche lui disegnatore».
«Venivamo tutti dall’Esperia, io dai corsi serali e del sabato, perché avevo iniziato a lavorare a 15 anni in un’azienda di elettro-forniture che faceva apparecchiature per le linee elettriche. In officina imparavi a fare tutto, limare i pezzi, lavorarli sotto bilancieri, ai torni paralleli a mano, fare le saldature, la verniciatura».
«Dopo l’Esperia e dopo il militare passo in ufficio, inizio a disegnare componenti per apparecchiature elettriche, le terne, gli interruttori per i pali luce. Ma era un lavoro ripetitivo, volevo cambiare. Vedo un annuncio “cercasi disegnatore”. Mi attirava questa azienda elettromeccanica, il capannone diverso dagli altri, molto alto, tutto in lamiera. Sapevo che lavoravano con l’acciaio inox ma esattamente non sapevo cosa facessero».
«Al colloquio mi fanno vedere i disegni, mi chiedono: lei è in grado? Io rispondo: certe cose sì, le altre cose le imparo. Va bene. Era il 1976».
«Lavoravamo per tutto il mondo, per l’industria farmaceutica, chimica, alimentare, per i più grandi marchi della cosmetica francese. Progettavamo e costruivamo macchine per la produzione di medicinali, cosmetici, detersivi, sieri, basi alimentari».
«Arrivavano le cartelline con la commessa, dentro c’erano tutti i dettagli, le caratteristiche, i processi, le prestazioni richieste. Le guardavamo insieme, con il commerciale che chiedeva: si può fare? No so. Forse. Vediamo. Proviamo…».

Quello è stato il periodo più bello. Si lavorava in squadra
«Partivamo da una forma, poi in base alla funzione creavamo la macchina, da zero. In 30 anni una macchina da produrre in serie non l’abbiamo mai fatta, sempre progetti unici, prototipi, macchine speciali».
«Quando queste grandi aziende multinazionali volevano fare qualcosa di nuovo, di speciale, chiedevano a noi».
«I calcoli si facevano a mano, su carta, ma eri talmente allenato che li facevi mentalmente».
«Poi si cominciava a sviluppare, adattare, si partiva con un’idea e si finiva con un’altra, si provava, si riprovava, il momento della verità era il collaudo, alla presenza degli ingegneri e dei tecnici del cliente, momenti decisivi, magari non si parlava la lingua, ci si capiva a sguardi, a gesti, chiedevano delle modifiche, annuivano».
«C’era una macchina nata brutta, ma veramente brutta, sgraziata, con una barra storta, un motore che sembrava messo lì, e dei movimenti stonati, senza armonia, sembrava una macchina dei cartoni animati. I clienti erano francesi, storcono il naso, la prendono in prova, fanno i difficili, dicono però qui, però là. La verità, che poi abbiamo saputo, è che quella macchina era una bomba, rendeva al di là di ogni loro più ottimistica speranza e funzionava che era una meraviglia».
«Ricordo una macchina per produrre i dadi alimentari in glutammato di sodio, progettata partendo da una macchina per fare antibiotici, che a sua volta era nata modificando una macchina fatta per un paese del medio oriente, per prodotti zootecnici, vaccini…».
«Il lavoro più coraggioso? Dovevamo fare dei reattori, ci danno le misure, sono più alti del capannone. Una persona normale avrebbe detto: mi spiace, non possiamo farli. Noi invece abbiamo scavato una buca nel pavimento del capannone…».
«Noi facevamo macchine speciali, e ci servivano componenti speciali. Oggi vai su internet e trovi tutto, allora c’era tutto un giro di rappresentanti che venivano a trovarti. In ufficio avevamo uno schedario-armadio gigante pieno di cataloghi di componenti elettromeccaniche di aziende di tutto il mondo, sia grandi marchi che piccole officine sconosciute. Motori, motovariatori, riduttori. Cercavi quello che ti serviva, poi ti attaccavi al telefono».
«Poi l’epoca delle macchine brutte è finita. Il design, la carrozzeria, la pulizia diventate sempre più importanti. E così macchine carenate, chiuse, automatizzate, più sicure».
«Ci dividevamo il progetto: uno seguiva la meccanica, uno i motori, uno le carrozzerie. Io mi occupavo della parte elettrica, facevo lo schema di funzionamento completo di tutti i componenti, il tempo medio era di 10 giorni. In un anno costruivamo 30 nuove macchine».

Poi è arrivata la rivoluzione tecnologica
«In quegli anni abbiamo vissuto tutte le tappe della rivoluzione tecnologica. L’informatica, l’elettronica, la meccatronica, l’automazione».
«Il quadro di controllo non esisteva. All’inizio c’era solo l’amperometro, il voltmetro e il contagiri. Poi i primi teleruttori, gli inverter, la pulsantiera e il quadro sinottico, un pannello con le lucine dove si vedeva tutto il funzionamento, come quello del capostazione. Alla fine sono arrivati i PLC e i quadri elettrici, volumi ridotti, sempre più possibilità di gestire le fasi e programmare le macchine».
«Così torno all’Esperia, corso di informatica e disegno CAD. Il primo computer un Olivetti M24, caricavo il programma, usavo un versione speciale di UNIX, molto potente e anche più versatile rispetto ad Autocad».
«Ma poi con la sua politica dello sviluppo libero Windows e Autocad sono diventati come l’inglese, la lingua comune. Dovevo tradurre tutto per Autocad, e alla fine a malincuore abbiamo rinunciato a UNIX».
«Ricordo la prima connessione a Internet, si viaggiava a 4kb/s! È passato un secolo».

Quello che mi racconta mio padre è un mondo che non c’è più
I progettisti non stavano davanti a un video, ma si riunivano a discutere attorno al tecnigrafo.
Oggi abbiamo macchine e programmi che imparano da quello che fanno. Io allora ero bambina, non potevo sapere che quella era l’ultima generazione di uomini “capaci di fare tutto”, nati e cresciuti fin da bambini con la propensione a “guardare come è fatto, come funziona”, capaci di smontare e aggiustare qualsiasi cosa, elettrodomestico o apparecchio elettrico, idraulico o meccanico.
Ma soprattutto l’approccio di quella generazione di studenti serali dell’Esperia che ha vissuto la transizione tecnologica dalla meccanica all’elettronica. Conoscere, provare, risolvere. Questo approccio era un mix vincente di testardaggine e creatività. La rete delle nostre imprese high-tech nasce da questo approccio, da questi padri che aldilà dei ruoli – imprenditore, artigiano, tecnico, operaio specializzato – avevano un’indole comune.
«Prima di dire no, non si può fare, stavamo su le notti a provare e riprovare».
Ecco la lezione, la vera eredità.

MULTI
#coraggiodavendere

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